Tra i pochi oggetti ricevuti in eredità dalla buonanima di mio
nonno c'era un prezioso scrittoio Luigi XV finemente intarsiato, con
deliziosi particolari in ebano e madreperla, arricchito da lucide maniglie
in argento cesellate come gioielli.
L'altra mattina ho avuto la triste sorpresa di non trovarlo più:
col cuore in gola ho controllato tutte le porte, tutte le finestre, il
cancello e i canini di Attila, il mio feroce Chihuahua da guardia. Tutto
a posto, nessun ladro era entrato nottetempo: in compenso era uscito un
idiota. Nella fattispecie il mio assistente Massimo Riserbo che, approfittando
del mio sonno sacrosanto, aveva caricato sul portapacchi del suo Sulky
l'antico manufatto, insieme a tutto ciò che di ligneo era riuscito
a trovare in casa: sedie, mobili, stuzzicadenti, battiscopa e persino la
cuccia di Attila.
Dopo aver sottoposto l'infame ad una tortura terribile (che uso sempre
in questi casi: si tratta di strappare una ad una le pagine del suo Topolino
fresco di stampa) sono riuscito a farmi dire l'ubicazione del maltolto
e - soprattutto - il motivo di un gesto così imbecille, persino
per lui che è il Batistuta degli imbecilli. E sapete cosa mi ha
risposto, con candore sfacciato, il Riserbo? "Serviva per la Fogheraccia!
Mi hanno detto che il legno vecchio brucia meglio e fa meno fumo".
Sicuramente molto meno fumo di quello che hanno fatto i suoi piedi quando
io e Attila abbiamo cominciato a rincorrerlo per tutto l'isolato.
La Fogheraccia! Da sempre i grandi riti profani dell'uomo sono ispirati e
scanditi dai ritmi della natura: e in questo periodo dell'anno bisogna potare
le piante, raccogliere i vecchi rami che come mani scheletrite si stagliavano
nel grigio cielo d'inverno, e ora giacciono a terra in attesa di essere bruciati.
Il fuoco che purifica, il fuoco che riscalda, simbolo stesso di un ricordo
che si vuole cancellare e augurio per una nuova stagione prospera e piena di
frutti. È automatico che questo antico rito si trasformi poi in una
grande festa popolare, che non a caso cade pochi giorni prima dell'equinozio
di primavera.
Passeggiando lungo il fiume, o nei parchi, o nei molti spazi verdi che in
periferia vengono risparmiati dal cemento, è facile imbattersi in cumuli
di rami e sterpi, vecchie masserizie e scrittoi Luigi XV, pronti per diventare
protagonisti della Fogheraccia, ed è ancora più facile tornare
con la mente agli anni scapestrati e felici della propria infanzia.
Allora i divertimenti erano pochissimi, la televisione era in bianco e nero
e aveva solo due canali, ed eravamo tutti meno rimbambiti dai videogames,
anche se il nostro corpo era devastato da croste terribili; occasioni come
la Fogheraccia erano pane per i nostri denti (quando li avevamo).
Si cominciava almeno due mesi prima utilizzando i mezzi di trasporto
più disparati: carriole, caratelle, cani da traino e biciclette
col rimorchio, in perenne movimento e sempre stracarichi di tutto ciò
che si trovava di combustibile. Era un'infamia vergognosa avere la Fogheraccia
più piccola di quella della banda rivale, perciò razziavamo
sistematicamente gli oggetti più impensati, pur di raccogliere una
quantità di materiale sufficiente: dai cantieri edili sparivano le
assi delle impalcature, i paletti delle recinzioni venivano divelti senza
pietà, cassette e scatoloni venivano vuotati del loro contenuto
(sempre che quest'ultimo non fosse combustibile). Era pericolosissimo
lasciare asciugare all'aria aperta sedie appena verniciate, così
come era estremamente rischioso lasciare incustoditi rastrelli, vanghe
e tutto ciò che avesse un manico di legno.
Come industriose formiche, in ordinate formazioni, depositavamo il prezioso
materiale nel campetto dove avrebbe avuto luogo l'evento. Al centro dello
spiazzo si ergeva un palo ornato da una pila di vecchi copertoni: era lo
scheletro della Fogheraccia. Il resto era tatticamente suddiviso in sei
o sette mucchietti che solo il pomeriggio del 18 marzo avremmo messo al
loro posto. Questo stratagemma traeva origine dalla necessità di
limitare al minimo i danni cagionati da eventuali incursioni di bande
nemiche; venivano organizzati anche veri e propri turni di guardia, con
sentinelle armate di fionda e cerbottana, pronte a tutto pur di difendere
l'opera che si andava formando.
La sera fatidica c'era sempre qualche cretino (e si trattava solitamente
dei grandi della compagnia che durante la costruzione della Fogheraccia
non avevano mosso dito) che appiccava il fuoco troppo presto, qualcun
altro che buttava i raudi nel falò, e alcuni sprovveduti che si
piazzavano a favore di vento affumicandosi fino al midollo.
Era quella la sera in cui, con la complicità della gioia, del calore
e qualche volta del Calcinculo, azzardavamo i primi baci con le nostre
coetanee: allora come oggi il risultato era un ceffone a bruciapelo, ma
almeno si poteva giustificare il rossore del viso con un'esposizione troppo
ravvicinata al falò.
La serata trascorreva lieta, nonostante tutto, e quando il fuoco era quasi
spento un coraggioso (spesso ubriaco) tentava il bene augurante "salto
della Fogheraccia": e poiché i fumi dell'alcol portano a
sopravvalutare le proprie capacità, l'ardito sovente atterrava
malamente rimettendoci sopracciglia e peli del naso.
Anche il giorno successivo al rito conservava qualcosa di magico: aleggiava
nell'aria una foschìa acre, e nere areole di brace ancora fumante
avevano preso il posto delle grandi opere di architettura infantile che
per settimane ci avevano impegnati. Le carriole tornavano al loro posto,
gli scapaccioni si sprecavano, ricominciavano i tornei di calcio su
ghiaia e le sedute di scambio di figurine; ma negli occhi ancora arrossati
di noi bambini si poteva leggere, velata eppure potente, una promessa:
la prossima Fogheraccia sarà ancora più bella.
Dr. Danny Irreparabili.