Ricordi d'infanzia (seconda parte)

Come abbiamo visto nella puntata precedente, il gioco del calcio era l'attività ludica principale di noi bambini di qualche lustro fa. A dire il vero ci fu un periodo in cui rinnegammo lo sport nazionale per abbracciare la disciplina del baseball, sulla scia dei clamorosi successi della squadra riminese che allora si chiamava Ceramiche Costi e collezionava scudetti e coppe dei Campioni a ripetizione. Certo l'equipaggiamento lasciava un po' a desiderare, visto che avevamo una sola mazza vecchissima e scheggiata, pietoso dono del custode dello stadio che altrimenti l'avrebbe messa nel camino. I guantoni si realizzavano riciclando le borsette della mamma o i palloni Super Tele squarciati, si piazzavano a terra quattro Uomo Ragno per fare le basi e la partita poteva cominciare.

Il periodo del baseball durò relativamente poco; più o meno fino a quando Paolino detto Culodigomma, nel ruolo di catcher, ingoiò due incisivi grazie a una poderosa quanto involontaria mazzata infertagli da Marcone, noto anche come Conan il Barbaro. Quale che fosse lo sport praticato, alcune regole non scritte regolavano lo svolgimento delle partite. Quando Giovanni detto Tisi sputava più verde del solito doveva essere sostituito; quando Davide detto Bàgana faceva tre rutti intercalati da altrettanti moccoli si osservava un quarto d'ora di intervallo e poi si cambiava campo; per la scelta del campo stesso, non potendo contare sulla classica moneta, si chiamava Robertino: il capitano di una squadra sceglieva una narice di Robertino (l'altra narice veniva ovviamente assegnata all'altra squadra), dopodiché il medesimo estraeva due caccole formidabili, la più grossa delle quali decretava la vittoria di uno dei due contendenti.

Quando cominciava a piovere si continuava a giocare imperterriti, almeno fino a quando uno dei due portieri non manifestava sintomi di annegamento (regola 101) o fino a quando non si formava una pozzanghera talmente vasta da non riuscire ad attraversarla neanche con dei passi da gigante, due da tigre e dodici da formica (regola 101 bis). A questo punto Bàgana emetteva il triplo rutto finale, si raccoglievano i panni inzuppati e il pallone per rifugiarsi in un garage, possibilmente illuminato e attrezzato, e dedicarsi alla costruzione delle armi che avremmo utilizzato nelle battaglie dei giorni seguenti.

Classica arma infantile, la fionda (o sfròmbla) necessita di una tecnica costruttiva che va ben al di là del suo aspetto dimesso. Si passavano pomeriggi interi tra i rovi e l'ortica, alla disperata ricerca della ipsilon perfetta: se anche la si trovava, bisognava aver cura che il legno non fosse troppo verde e neppure troppo secco, pena la rottura del medesimo al momento del tiro con le immaginabili conseguenze. Trovare gli elastici era più semplice: bastava fare gli occhioni da cerbiatto a Carlo il meccanico e lui, bonariamente, estraeva dal bidone varie camere d'aria di bicicletta bucate, adattissime allo scopo. Costruito l'attrezzo si presentava l'esigenza di rifornirlo di munizioni: la Natura ci metteva a disposizione gli obsoleti sassi, che si raccoglievano a centinaia nel greto del fiume. Le pietre troppo piatte, non adatte all'uso balistico, venivano restituite al legittimo proprietario col famoso lancio a pelo d'acqua, specialità di Stefano che in virtù del suo record di 11 salti fu soprannominato "Ranòcia".

Altro oggetto ideale per armare le nostre fionde era la biglia di vetro: liscia, sibilante, bellissima con le sue alette colorate, doveva essere conquistata in un flipperino meccanico col percorso a trabocchetti che campeggiava in un angolo del bar. La nostra perizia era tale che, ormai, ogni tentativo veniva premiato con una biglia, ma poiché ad ognuna era abbinata una cicca avremmo avuto grossi problemi di carie negli anni successivi. Ambitissima ed estremamente difficile da reperire era la micidiale pallina da flipper; chi l'aveva si guardava bene dall'utilizzarla: bastava mostrarla agli amici, estasiati e intimoriti, come facevano USA e URSS durante la guerra fredda. Io la testata nucleare ce l'ho e non la uso. Ma se la uso sono dolori.

La pallina da biliardino era un altro grosso calibro che rimediavamo con relativa facilità assistendo alle interminabili partite dei ragazzi più grandi: quando una pallina usciva dal campo di gioco fingevamo di correre a recuperarla, salvo poi intascarla con nonchalanche e defilarci alla svelta. A causa delle nostre razzie i calciobalilla della zona potevano contare su tre o quattro palline, con grande disappunto di giocatori e baristi. Il nostro acerbo ingegno aveva dato via anche alla terribile fionda automatica che vediamo nel disegno: sessanta centimetri di muraletto, una comune molletta da bucato, il solito elastico e il gioco era fatto. Dotata di una precisione micrometrica, quest'arma veniva spesso utilizzata nel tiro a distanza ravvicinata su lucertole e polpacci degli amici, risultando per entrambi quasi sempre letale. La fionda automatica venne messa al bando dalla convenzione di Ginevra per la sua pericolosità e la potenza giudicata eccessiva. E anche su esposto dei carpentieri, stufi di veder sparire i muraletti dei cantieri.

Le cerbottane vanno a formare l'altro grande gruppo di armi tipicamente infantili, alternativo alle fionde. A dire il vero c'era anche la possibilità di costruire bombe a mano, con terrificanti intrugli di zolfo e potassio in pasticche, ma questa tecnica era retaggio di generazioni precedenti (i nostri genitori, per intenderci) che si erano guardati bene dal tramandarcela. In fondo eravamo bambini per bene, e la cerbottana - pacifica, sicura e silenziosa - era la nostra arma preferita. La versione base - detta anche da passeggio - si otteneva privando una normale penna Bic di tappi e refill: veniva usata prevalentemente a scuola, durante le brevi battaglie concesse dalla ricreazione, in alternativa all'altra arma scolastica per eccellenza: il cancellino saturo di polvere di gesso. I proiettili per la Bic si ottenevano masticando a lungo palline di carta di dimensioni adeguate: il più bravo in questa tecnica era Gianluca, detto Formichiere per l'inusuale vischiosità della sua saliva. Riusciva a fare una pallina partendo da un foglio protocollo, e il proiettile ottenuto - già letale per il peso specifico - aveva una tale adesività che per rimuoverlo dalla parete era necessario chiamare il bidello equipaggiato di raschietto da stuccatore.

Per le battaglie all'aria aperta le cerbottane (dette in gergo "cerebo") assumevano dimensioni ben maggiori: si utilizzava la comune canna nera da elettricista, in plastica, accuratamente rifinita ai bordi per consentire l'uscita ottimale dei proiettili. Oltre alla classica canna a colpo singolo esistevano varie configurazioni, come possiamo vedere dal disegno: il sovrapposto era ottimo per la precisione e il ridotto ingombro, ma imponeva la rotazione dell'arma fra un colpo e l'altro. La mia cerbottana preferita era la doppietta a canne mozze, elegante, corta e maneggevole: si sparavano i due colpi in rapida successione e il corpo centrale si poteva utilizzare come cartuccera e contenitore per le figurine. Il numero delle canne registrò in seguito una preoccupante escalation: oltre alla mortale 4 colpi modello Gatling raffigurata, Marcone "Conan" portò sul campo di battaglia una mostruosa sei colpi a canne lunghe con il tubo da grondaia centrale, della quale facemmo sparire il prototipo e i progetti per salvaguardare la sicurezza nazionale.

La cerbottana, per quanto ben realizzata, non poteva funzionare al meglio senza rifornirla di proiettili confezionati a dovere. I proiettili in questione erano coni di carta detti pirulli, per i quali utilizzavamo comuni fogli di quaderno; il materiale migliore era però l'allora poco diffusa carta patinata dell'Intrepido e di Grand Hotel: porto ancora i segni dell'epica mazzolata presa da mia madre quando si accorse che fine facevano i numeri più rari della sua amata collezione. Il più bravo rullatore di pirulli della compagnia era ovviamente il Formichiere, che nel volgere di pochi anni sarebbe poi passato agli spinelli: produceva coni di rara perfezione, solidi e appuntiti, e il loro diametro alla base - misura essenziale per un buon funzionamento - sembrava calcolato col calibro. Formichiere fece una fortuna smerciando pirulli in cambio di giornalini e figurine e riuscì anche a creare un piccolo catalogo con pirulli semplici, armati con spillo, doppi, a punta ripiegata, a testata chimica, a lunga gittata. Fatta scorta di pirulli, ce ne infilavamo quanti più possibile nei capelli, tenuti sporchi e arruffati proprio con questo scopo - e correvamo nell'Ausa a scrivere le pagine più epiche della nostra piccola storia. Con duecento lire di tubo da elettricista ci divertivamo per un'estate intera, con le gambe segnate dai rovi eravamo felici.

Anche senza i Power Rangers.


Dr. Danny Irreparabili.