Ai tempi lontani della mia infanzia era in vigore, nella nostra bella
penisola, un'abitudine che rasentava il reato di circonvenzione di minore:
la distribuzione gratuita degli album per la raccolta delle figurine. Poco
prima dell'inizio della stagione calcistica veniva messo in circolazione
il perfido fascicolo, pieno di dati, tabelle, albi d'oro e calendari: era
già bello e interessante di per sé, ottima lettura di toilette
e sconfinato manuale dei numeri del football, ma quei riquadri vuoti erano
quasi una provocazione per noi bambini d'assalto.
Cominciava allora la caccia alla figurina, sport nazionale degli italiani
under 12, che prendeva le mosse dall'edicola e prosciugava buona parte della
già misera paghetta settimanale.
Con cento lire si compravano cinque bustine, e ogni bustina conteneva quattro
figurine: in tutto venti piccoli palpiti d'emozione, pochi minuti di gioia
accompagnati dal profumo inconfondibile delle magiche immaginette adesive.
L'applicazione delle medesime sulle pagine dell'albo era un'operazione da
compiersi in religioso silenzio e con la massima cura; la scoperta di un en
plein di figurine doppie provocava alcuni secondi di reazione non proprio
silenziosa e tutt'altro che religiosa, ma quest'eventualità faceva
parte del gioco e doveva essere accettata.
Oltretutto le "doppie" erano indispensabili per partecipare ai
giochi nati sulla scia della compravendita di figurine; il sistema più
ovvio e banale era il baratto, dove ognuno di noi dava fondo alle proprie
capacità di commerciante per ottenere il massimo da una doppia
particolarmente ambita: personalmente riuscii a estorcere venticinque pezzi
in cambio di Piloni, secondo portiere della Juventus che fece almeno quattro
anni il bianconero senza giocare mai.
Pistone ottenne trentadue figurine per Angelo Benedetto Sormani del Lanerossi
Vicenza, ma il colpo grosso lo fece Marchino che, al modico prezzo di centosei
figurine, un sacchetto di biglie, un Super Tele e una rana riuscì a
piazzare il pezzo più raro della raccolta di quell'anno: l'allampanato
Amos Adani, portiere del Bologna, che a differenza di tutti i colleghi ostentava
una casacca rosso fuoco inusuale per l'epoca.
Allora a scuola non si portava il Game Boy Nintendo, e Super Mario era
ancora un giovane apprendista idraulico: nella cartella (perché
anche gli zainetti Invicta erano di là da venire) insieme a qualche
libro e al panino c'era sempre il sacchetto di plastica pieno di doppie.
Il suono della campanella era come l'accensione della fiamma olimpica:
prendevano il via i Grandi Giochi d'Azzardo della Figurina.
I due giochi più comuni erano il Cicco e il Botto: nel primo si
poneva una figurina sul bordo del banco, rovesciata, in modo che un terzo
di essa sporgesse dal piano di legno. A questo punto la si colpiva col
pollice, dal basso verso l'alto, e se dopo il breve volo ricadeva dritta
la si vinceva. Altrimenti, addio figurina.
Il Botto, più rumoroso e quindi meno adatto all'ambiente scolastico,
consisteva nel ribaltare l'immagine colpendola violentemente con la mano
tenuta a cucchiaio: spesso per rendere più agevole l'operazione si
martoriava la figurina piegandola a dorso di mulo, e c'era anche chi usava
subdoli trucchi come la mano sudata o la caccola disposta strategicamente
al centro del palmo.
Finita la scuola, si continuava a giocare sulla pelle dei poveri
calciatori con tecniche più adatte alla bella stagione: nella
fattispecie le "piastre", rozzo scimmiottamento del classico
gioco delle bocce in cui si cimentavano i nostri nonni al circolo ENAL;
nel nostro caso il boccino era sostituito da un semplice sasso, sotto
il quale trovavano posto le figurine che costituivano la posta della
partita. Da una distanza prestabilita, a turno, ognuno lanciava la
propria piastra (normalmente un ciottolone di fiume o quadrello di
porfido) e chi si avvicinava di più al "boccino" si
impossessava dell'intera posta.
Bastava veramente poco per divertirci.
All'epoca il mezzo di trasporto più diffuso era la bicicletta da
cross. Pesante come Jumbo e maneggevole come una petroliera, era dotata
di un ampio manubrio a corna di bue spesso ornato da vezzosi pendagli in
plastica stile ingresso di macelleria, nonché di una lunga sella
completa di poggiaschiena Easy Rider. Io avevo una Vicini rossa munita
di sella maculata (roba di un kitsch mai visto) e doveva essere costruita
con barre piene anziché tubi, visto che pesava almeno come un
maggiolino Volkswagen. Come tutti i bambini romagnoli eravamo incantati
dalle motociclette, e invidiavamo profondamente i fratelli Fabio e Franco
che possedevano due minimoto Malaguti da cross troppo belle per essere vere:
a noi non restava che utilizzare il classico trucco infantile del cartoncino
fissato con una molletta alla forcella della bici. Il sommesso fruscio che
derivava dall'espediente era lontano anni luce dal rombo di una moto vera,
ma per noi che vivevamo di pane e fantasia era sufficiente per sentirci
eredi di Pasolini e Agostini.
Eravamo attratti, ovviamente, anche dal fascino delle quattro ruote, e
per placare almeno in parte la nostra sete di velocità costruivamo
le celebri caratelle: quattro assi inchiodate alla bell'e meglio, quattro
cuscinetti a sfere elemosinati, come al solito, a Carlo il meccanico e il
gioco era fatto. Il rudimentale sistema di sterzo prevedeva l'asse anteriore
imperniato con un grosso bullone al telaio del veicolo e una cordicella
legata alle estremità dell'asse stesso. Non era il massimo in fatto
di precisione di guida, ma allora il servosterzo era un optional anche su
mezzi ben più prestigiosi. Non essendo dotata di una propulsione
autonoma, la caratella veniva utilizzata in uno dei seguenti modi:
A) A forza di gravità, lanciandosi a capofitto in pericolose discese,
dimenticando spesso il modesto potere frenante delle nostre ciabatte infradito.
B) A trazione animale, utilizzando alternativamente la forza dei nostri cani
o di Pistone Giovannini detto anche Turbodiesel.
C) A trazione meccanica, collegando una caratella a una bici tramite
fune: si costruivano così agguerriti equipaggi che si sfidavano
in epici Gran Premi (con tanto di prove cronometrate e pit stop) sotto
gli occhi severi di Pistone che, troppo pesante per essere trainato,
registrava con cura i tempi sul giro.
Dr. Danny Irreparabili.