La spiaggia, versatile campo di battaglia votato alle più disparate
attività, non è più solo il luogo ideale per giocare, passeggiare,
leggere e intortare: un'altra consuetudine ha preso piede prepotentemente
in questi ultimi anni, complice la riconversione dei mille chioschi
dell'arenile in veri e propri ristorantini. Per consumare il pranzo
senza muoversi dallo stabilimento balneare, perché è di questo che
stiamo parlando, esistono due tecniche fondamentali. La prima, adottata
dai più cauti e dai moderati della tintarella, consiste appunto nel
lasciare le brandine per recarsi nei ristorantini anzidetti, che sovente
associano sedie di plastica e tovagliolini di carta a prezzi da Gran Gourmet.
La seconda tecnica è invece la preferita dagli aficionados del sole, che
non temono i perpendicolari e cocenti raggi di mezzogiorno, e che pur di
non abbandonare nemmeno per un istante l'amato astro si portano il cibo da
casa e lo consumano usando la brandina come tavolo.
Massimo ed io, per la verità abbastanza allergici al sole a picco
ma attenti cultori di ogni nuova moda, abbiamo optato per la seconda,
pericolosa soluzione. E, tanto per non smentirmi, ho nuovamente commesso
la dabbenaggine di affidare all'idiota culinario la preparazione del pranzo,
concedendogli carta bianca sulla composizione e sulla quantità delle
pietanze. Così, mentre dagli zaini altrui fuoriuscivano vaschette di
fresca insalata di riso, piccoli panini, frutta in quantità e dissetanti
bibite analcoliche, dal grosso contenitore termico trascinato in spiaggia da
Massimo faceva capolino il seguente menù:
- Due abbondanti porzioni di peperonata con cipolle e ciccioli.
- Due mastelli di polenta all'uccelletto.
- Fagiolata con le cotiche e zampetti di maiale.
- Come dessert, un bel padellone di sanguinaccio appena fatto.
- Come bibita, una damigiana di Barolo classico Doc.
- Un termos di Vin Brulè (non si sa mai).
- Una scodella di Ciappi al gorgonzola (per Attila).
A parte il fatto che Massimo non è assolutamente in grado di
adeguare la sua cucina alle circostanze (ricordo un'imbarazzante cena offerta
al rettore dell'Università Islamica di Ankara, in occasione della quale
il deficiente preparò dodici portate, tutte a base di vietatissima carne
suina), va aggiunto che il medesimo è estremamente permaloso: ogni volta
che mi azzardo a rifiutare uno solo dei suoi manicaretti piange, pesta i piedi,
si strappa i capelli e tenta il suicidio. Per evitare di sorbirmi tutte queste
scenate mi sono armato di infinita pazienza ed ho chiamato a raccolta tutte
le mie riserve di succhi gastrici: dopo un'ora ero fermo a metà fagiolata,
indeciso se scegliere l'indigestione o la morte di Massimo. Giunto al
sanguinaccio e picchiato dal sole più feroce degli ultimi dieci anni, ho
cominciato a rivedere tutta la mia vita, fin da quando - bambino - mi
nascondevo in bagno per non mangiare il sanguinaccio.
Scolata l'ultima goccia di Barolo ho definitivamente perso i sensi,
stramazzando sulla sabbia rovente sotto gli occhi increduli di Massimo
intento ad onorare la propria cucina col sesto giro di peperonata. Al
mio risveglio, esattamente tre ore dopo lo svenimento, mi sono visto il mio
assistente, fresco come una rosa, intento a preparare tutti i canotti e gli
ammenicoli gonfiabili che avevamo a disposizione, compresa un'orca assassina a
grandezza naturale di recentissimo acquisto. Poiché eravamo sprovvisti
di pompe e compressori, mi è sorta spontanea una domanda: "Non avrai
mica gonfiato tutta quella roba coi polmoni da formica che ti ritrovi?"
"Non proprio coi polmoni, Danny" è stata la risposta,
"semmai con un'altra parte del corpo: sai, la fagiolata stava
cominciando a fare effetto e ho unito l'utile al dilettevole!"
In virtù del dogma tramandatoci dalle nostre mamme, che impone un
intervallo di tre ore tra il pranzo e il bagno (a prescindere dal fatto che
si sia mangiato un ghiacciolo o un elefante arrosto), era finalmente giunta
l'ora del contatto col liquido elemento. Massimo Riserbo, che non rinuncia
mai a un po' di scenografia, ha voluto a tutti i costi celebrare il varo solenne
del nostro glorioso canotto d'altura "Sailor Moon II", in perfetta
tenuta di capitano di corvetta con tanto di sciabola d'ordinanza. Dopo una
decina di vani tentativi di rompere una bottiglia di Champagne sulle gommose
murate del bastimento, l'alto ufficiale ha sentenziato che poteva bastare
così e ha mollato gli ormeggi, impettito in un perfetto saluto militare.
A me è toccato assoggettarmi alla pantomima vestendo i panni di nostromo,
fuochista, secondo ufficiale e mozzo contemporaneamente, per evitare - come al
solito - scenate isteriche da parte dell'idiota d'alto mare. Ed ora, mentre
con vigorose pagaiate dirigo il vascello verso le colonne d'Ercole (alias le
palate del porto) già vedo passarmi davanti agli occhi le scene del
prossimo grande successo letterario e cinematografico "Gli ammutinati
del Sailor Moon".
Dr. Danny Irreparabili.