Qualcuno tra i miei più accaniti detrattori - che so, il mio psichiatra
o il mio commercialista - obietterà che non avrei potuto scegliere un
periodo peggiore per parlare di Festival. Le manifestazioni estive sono terminate
ormai da un pezzo e alla kermesse di Sanremo mancano ancora tre mesi abbondanti,
eppure ritengo che per analizzare compiutamente questi autentici casi di follia
collettiva non esista momento migliore: solo a mente libera, infatti, e al riparo
dalle fanfare della Tv e delle riviste scandalistiche, possiamo affrontare il
delicato argomento senza condizionamenti. Da oltre quarant'anni, almeno in Italia,
Festival è sinonimo di Sanremo, alla faccia di manifestazioni di ben altra
levatura come Umbria Jazz o il Due Mondi di Spoleto; e mamma Rai, da buona coetanea
del Festival, lo ha sempre affiancato e sostenuto dai tempi lontani del bianco e nero.
Quando il papà del sottoscritto era ancora un ragazzino in calzoncini
corti, il festival era un po' diverso da come lo conosciamo oggi. A ricevere
l'ambito premio non erano i cantanti bensì le canzoni: gli artisti erano
solo interpreti e per questo potevano esibirsi anche in più di un brano,
addirittura in brani di diversi autori. Regina di quegli anni era Nilla Pizzi,
la Giorgia del dopoguerra che sbaragliò il campo con hit singles del
calibro di "Grazie dei fior" e "Vola colomba". Gli ospiti
stranieri erano ancora una pia illusione, il play back che più tardi
avrebbe fatto inorridire le platee era fantascienza, il presentatore era tale
Nunzio Filogamo che oggi, viste le penose performances di Mike e Pippo
Baudo, siamo costretti a rimpiangere: il suo grido di battaglia "Cari amici
vicini e lontani..." era secondo solo al "Quasi gol" di Niccolò Carosio e
precedeva di molto lo squallido "Allegriaaa"
del Michelino nazionale. Dopo la fase pionieristica, le cose cambiarono anche
per la grande passerella della canzonetta: si cominciarono a vedere le prime
Guest Stars (chi non ricorda la storica apparizione di Louis Armstrong che
cantò persino in italiano?), Filogamo abdicò a favore - ahimè
- di Bongiorno e i cantanti smisero di essere dei Juke Box ambulanti per divenire
i veri protagonisti di Sanremo. Non solo, ogni artista cantava esclusivamente il
suo brano, ma in alcune edizioni accadde pure che questo venisse interpretato
da due cantanti in due esibizioni distinte: "Non ho l'età" per
fare un esempio, è passata alla storia nella versione di Gigliola Cinquetti
ma non tutti sanno che a Sanremo fu affiancata dal clone cantato dalla sconosciuta
Patricia Carli. Un altro grande successo nato nella città dei fiori "Nel blu
dipinto di blu" (alias "Volare") fu cantata dal compianto Mimmo Modugno, mentre
quello che oggi chiameremmo remix fu affidato all'ugola del giovane Johnny Dorelli.
Erano quelli i tempi d'oro del Festival, quando una canzone poteva
partecipare solo se conteneva almeno una delle parole care all'Italia:
cuore, amore, mamma e casa. Ma dietro l'angolo iniziavano a scalpitare
le nuove leve della musica nostrana e nel giro di poco tempo anche l'amatissimo
polpettone nazional popolare avrebbe ceduto alla fortissima domanda di rock'n'roll
da parte del mercato (da sempre unico e incontestabile padrone di ogni moda).
Così le incartapecorite signore della prima fila del Teatro Ariston
dovettero inorridire davanti agli ancheggiamenti di Celentano nella
scatenata interpretazione di "Ventiquattromila baci", agli
inaccettabili capelli lunghi di Mal e al ciuffo a balconcino di Little
Tony. Leggenda vuole che una di dette signore fu colpita al volto dalle
frange del giubbotto del bell'Antonio, impegnato nell'esecuzione di
"Cuore matto" in pieno stile Elvis. Il carrozzone sanremese
si era ormai tramutato in una perfetta macchina per fare i soldi: piaceva
alle mamme che continuavano a godersi i gorgheggi di Milva e Orietta Berti,
piaceva ai giovani che trovavano negli urlatori i loro nuovi idoli e anche
agli animali visto che tra tanti big delle sette note qualcuno che cantava
da cani si trovava sempre.
La tragica scomparsa di Luigi Tenco, suicidatosi durante l'edizione 1967
dopo aver visto la sua canzone bocciata dalla giuria, lanciò oscure
ombre sulla credibilità del Festival. Per quest'ultimo stava finendo
il periodo delle vacche grasse, così come per il resto del paese:
aria di crisi, polemiche e contestazioni a non finire, caduta verticale della
qualità delle canzoni, preoccupanti cali di audience diedero inizio a
una serie di edizioni fallimentari che culminarono nel 1979 quando a vincere
fu un perfetto sconosciuto, tale Mino Vergnaghi, oggi collaboratore del ben
più celebre Zucchero. L'inopinata affermazione era il chiaro sintomo
di disorientamento e disaffezione nei confronti di Sanremo, ma per fortuna
sua e di tutto il Bel Paese, gli opulenti anni ottanta con il loro carico di
tangenti e ruberie erano alle porte, pronti a far sognare di nuovo gli italiani
con mille promesse mai mantenute. Finalmente era possibile vedere a colori i
celebri fiori del palco dell'Ariston e, tanto per restare in tema cromatico,
se ne vedevano e sentivano veramente di tutti i colori. Procedendo senza seguire
ordini cronologici potrei citare la pancia finta-gestante di Loredana Bertè,
la scollatura a precipizio di Anna Oxa dei tempi migliori, l'edizione presentata
da Isabel Russinova che diede l'idea di assistere a una puntata di Paperissima
in diretta. Chi si ricorda di Giorgia Fiorio che con una voce orrenda e un
aspetto adeguato alla voce riuscì a calcare il palco più famoso
d'Italia grazie all'interesse del ricco e potente papà Cesare? E al
contrario, il genio della canzone italiana Sergio Caputo che rimediò
una figura barbina arrivando ultimo davanti ad una platea troppa idiota per
la sua intelligenza? E lo scandalo provocato dal non meno arguto Renzo Arbore,
che nel brano "Il clarinetto" proponeva una serie di doppi sensi a sfondo
sessuale? Bei tempi quelli, ma negli anni novanta se ne sarebbero viste
di ancora più belle.
Prima fra tutte l'apparizione del vero grande protagonista delle edizioni
più recenti: Cavallo pazzo, spalla abituale di Pippo Baudo, il cui
inevitabile intervento era più atteso della proclamazione della canzone
vincitrice, e consisteva nella scena costruita ad arte del disoccupato cronico
che minacciava di gettarsi dal balcone e veniva salvato da Super Pippo.
Grandissimo anche lo svenimento in diretta di Al Bano, un po' meno grande
ma sempre degno di nota Piero Chiambretti che sollevava le gonne a Valeria
Marini, cosmico Mike Bongiorno che faceva notare a Silvia Salemi "Guarda
che ti sbagli! La tua canzone si intitola A CASA DI LUCIA! È scritto
qui". Ma al di là dei pettegolezzi che ogni edizione riesce a
suscitare, ben oltre il mito dei Jalisse che vengono dal nulla, vincono e
tornano nel nulla, uno soltanto rimane l'episodio dei tempi recenti che
riuscirà a passare alla storia: Elio e le Storie Tese che vestiti
come i Rockets, pelati e verniciati d'argento, propongono "La terra
dei cachi" dallo stesso palco dove nacquero le note di "Grazie
dei fior". Ovvero tra tanti idioti che cercano di cantare spesso con
risultati scadenti, meglio cantare da idioti con risultati eccezionali:
questo è Sanremo, questa è l'Italia.
Musicalmente vostro
Dr. Danny Irreparabili.