Come eravamo (prima parte) - Il ruffo

Esattamente sei anni fa, nell'autunno dell'ormai lontano 1992, nasceva su queste pagine una piccola rubrica di varia umanità, il cui scopo era di portare alla luce vizi e caratteristiche delle varie specie bipedi che popolavano Rimini e dintorni. Così, novello Ambrogio Fogar dell'Adriatico (o se preferite Jacques Cousteau della Valmarecchia), partivo ogni due settimane alla ricerca del soggetto del mio documentario, munito della mia attrezzatura ad alta tecnologia - penna e block notes - e dell'aiuto del mio assistente Massimo Riserbo.

La madre di tutte le puntate era dedicata al ruffo, curiosa e allora diffusissima specie umana, suddivisa nelle tre sottospecie Ruphus Cellularis, Ruphus Bancomatis, Ruphus Vulgaris, oltre alla variante femminile Rupha Lampadis. Come recita il testo dell'articolo, scritto in un italiano del quale oggi mi vergogno profondamente, il vero ruffo D.O.C. doveva essere alto, abbronzato e sorridente, anche se spesso quest'ultima caratteristica era dovuta ad una paresi facciale semipermanente; i capelli erano lunghi e fluenti, a volte raccolti in una coda, altre lasciati liberi di seminare forfora sulle spalle. L'abbigliamento prevedeva abiti pacchiani e costosi, camicie dai lunghi colletti, ascot e foulard in abbondanza, camperos o stivali texani pitonati. L'automobile preferita dal ruffo era l'ambitissima Mercedes 200 o superiore, meglio ancora se in versione cabrio, da parcheggiarsi obbligatoriamente in ottava fila nelle soste ai pub; in alternativa c'erano i fuoristrada giapponesi, più ingombranti e rumorosi e quindi adattissimi all'ostentazione, che i Cellularis amavano infangare ad arte nel giardino di casa per poi millantare epiche escursioni off-road nei dotti dibattiti con gli amici. Il vero oggetto feticcio della specie Ruphus, totem da adorare e motivo di invidia per i comuni mortali, era però il telefono cellulare: dimostrazione indiscutibile di benessere e ricchezza, al di là del suo utilizzo pratico, aveva il pregio di essere un simbolo di agiatezza portatile, pronto per essere posato su tavolini di birrerie e discoteche sotto gli occhi avidi dei meno abbienti, pronto a suonare in posti affollati per attirare lo sguardo concupiscente di ragazzotte minigonnate.

Come la foca monaca e il lupo marsicano, anche il ruffo, ahilui, è da considerarsi oggi specie in via di estinzione. L'impetuosa ondata New Age degli ultimi anni ha spazzato via feticci e status-symbol, ha sostituito l'ostentazione con la ricerca interiore, ha dato modo a molti di capire che l'essere non è poi così strettamente correlato all'avere. In nome della lotta per la sopravvivenza, gli ultimi esemplari hanno cercato di riciclare i loro simboli, passando dalle vecchie Mercedes (che intanto diventavano il mezzo più diffuso tra i nomadi Rom) a sobrie Porsche ed umili Ferrari, ma ormai il loro destino era segnato. Segnato più o meno come il loro viso, che bruciato da lampade e soggiorni a Cuba, reclamavano ben più di una spolverata di terra per nascondere le rughe premature che lo solcavano. O i loro capelli, un tempo glorioso trofeo, che sfibrati da meches e permanenti abbandonavano uno ad uno la loro dimora naturale per cercare giusto riposo nel lavabo del parrucchiere.

Tutti questi tragici eventi messi insieme, però, non avrebbero decretato la scomparsa definitiva del ruffo: il colpo di grazia, quello che è stato l'asteroide per i dinosauri, è stata la diffusione popolare dei telefoni cellulari. Quella tecnologia che un paio di lustri fa sembrava fantascienza, ora è alla portata di operai e massaie, pensionati e studentesse; un telefonino ormai costa meno di un frullatore, non c'è più bisogno di contratti e dichiarazioni arcane, basta una scheda e il gioco è fatto. Tanto che non è difficile vedere ragazzini quattordicenni telefonare alla morosina durante la ricreazione, severi sacerdoti ordinare le candele per la chiesa col loro bravo Motorola, signore di una certa età chiamare la nuora appena uscite dalla bottega del fruttivendolo.

Preso alla sprovvista da questa autentica rivoluzione popolare, il ruffo ha cercato in ogni modo di difendere la credibilità del suo oggetto portafortuna: magari acquistandone di sempre più piccoli, col controproducente risultato di nasconderli alla vista di chi li dovrebbe notare, o dotati di qualche gadget esclusivo. Come si può fare a meno, ormai, del telefono a forma di cozza, o di quello che cambia colore a seconda dell'angolo di osservazione, o ancora di quello con PC incorporato che permette al fortunato proprietario di navigare su Internet anche mentre sta facendo la cacca? Chi mai si sognerebbe di rinunciare a funzioni indispensabili come il giochino del serpente o la suoneria che può intonare Jingle Bells? Che senso ha la vita se il proprio cellulare non ha il guscio intercambiabile, il vibracall e la batteria al plutonio? Vistosi poi sconfitto su tutta la linea, il nostro personaggio ha poi tentato anche strade alternative, pur di riuscire a dimostrare appieno il proprio status: dai Rolex portati sopra il polsino alle costose cravatte di Versace, dal navigatore satellitare in auto, ai viaggi sempre più lunghi e sempre più ravvicinati tra loro, tutti disperati tentativi di tenere in vita una specie ormai estinta, tutti con la stessa inappellabile sentenza: ormai, della ricchezza altrui, non frega più niente a nessuno.


Dr. Danny Irreparabili.